E’ nota a tutti la grande importanza dell’immagine nella nostra epoca, considerata per questo l’epoca della riproducibilità tecnica. Viviamo nutrendoci di immagini, su esse costruiamo e modelliamo il mondo. Con le immagini narriamo, raccontiamo, descriviamo le cose e noi stessi. Immagini reali, fantastiche, artefatte, costruite, infinite tessere di un puzzle che riproducono, a volte sostituiscono la realtà… Che non sarebbe un problema, visto lo stato in cui versa questa nostra terra. Ma il rischio, nell’epoca della riproducibilità tecnica è proprio quello che un immaginario parziale o distorto possa sostituire la realtà e uno scatto in questo senso può fare la differenza!
Lo sanno bene le persone transessuali la cui immagine, ritratta sempre e comunque da altri, è diventata significato e significante dell’intera esperienza, uno scatto preciso, come per tante altre esperienze, ha avuto la capacità di costruire un senso altro, anzi alterato, del percorso delle persone trans. Penso a quelle foto che per decenni hanno trasmesso senso e significato del nostro percorso: le foto segnaletiche delle questure, quelle degli schedari dei manicomi, quelle scientifiche dei dottori, per finire a quelle della cronaca nera. Quale mondo ci hanno costruito intorno quelle foto!? Quale montaggio storico e sociale sono riuscite a operare!? A chi e a cosa sono state utili…?
Sicuramente non alle persone ritratte! Ma non è lo scatto in sé a fare la differenza quanto l’uso che se ne fa. Non credo di dire nulla di nuovo se asserisco che tutte le esperienze diverse, quelle che si discostano dalla linea della norma e delle convenzioni, in quanto tali sono percepite come disturbanti, dissonanti… degeneranti e viste (qui entra la narrazione fotografica) come l’altro da sé, l’altro pericoloso, l’altro a cui non assomigliare.
Sono state quelle foto che hanno fatto la nostra storia e, haimè anche la nostra rovina. Quelle foto hanno costruito la realtà transessuale che per anni è stata circoscritta a prostituzione, crimine, devianza e, quando andava bene, a spettacolo e folklore. Nell’ Ottocento, con l’avvento della fotografia, abbiamo la prima immagine che ritrae una persona definita “dal sesso incerto” o ermafrodita sul lettino medico con le gambe aperte che mostra i suoi genitali, la foto è di Nadar che su incarico dei medici ferma lo scatto. Il Positivismo, fonte della cultura scientifica del mondo contemporaneo, studiando tutto ciò e tutti coloro che erano difformi, non conformi, malformi aggiunge le persone “dal sesso incerto” le odierne persone transessuali ai suoi oggetti di studio, facendole diventare automaticamente creature mostruose. Sulla stessa scia Lombroso con la purtroppo famosa teoria della corrispondenza tra segno fisico e inclinazione criminale, le inserisce negli archivi fotografici del crimine. Qualche decennio dopo, a quegli archivi attingeranno anche i fautori della purezza della razza, deportando nei campi di sterminio insieme agli omosessuali e agli asociali tantissime persone transessuali.
Diverse fotografie risalenti ai primi decenni del secolo scorso testimoniano e descrivono la malattia mentale di “pervertiti e travestiti” (questa la dicitura) di un reparto speciale del Manicomio Criminale di Aversa. Sicuramente più recenti sono invece le numerose foto segnaletiche delle questure, frutto delle schedature effettuate durante le numerose retate nel cosiddetto “squallido mondo dell’omosessualità e del vizio”. Come dire che attraverso la fotografia si potrebbe ricostruire la genealogia del controllo sociale, la mappa della negazione, la nascita dello stereotipo che ancora oggi grava sulla vita dei/delle transessuali. Ma, ripeto, non è la foto intesa come mezzo artistico e comunicativo ad essere sotto accusa quanto il suo uso e la sua finalità.
Il reportage era ancora lontano, la narrazione tutta nella singola foto che aveva il compito di descrivere e trasmettere più che la complessità dell’oggetto fotografato, le esigenze e gli interessi dei committenti, era appunto una scheda segnaletica!
La foto consisteva in un primo piano, l’obiettivo era centrato esclusivamente sul corpo della persona tralasciando tutti i particolari che le stavano intorno. La persona transessuale o come veniva definita, l’individuo dal sesso incerto, il pervertito, il travestito era solo, avulso dal suo contesto, con la sua degenerazione molto bene evidenziata.
Negli anni Trenta, con Brassai, la fotografia comincia timidamente a bucare quel brutto mondo in cui eravamo state cacciate. Vengono poi i favolosi scatti di Robert Frank (1958) che ritraggono giovani travestiti a New York.
E le fotografie delle violente retate della polizia nei locali particolari, dei cellulari pieni di travestite o di queste ammanettate e trascinate via, le immagini dai cabaret di Parigi che scaldavano la scena e fanno sognare. Si cominciano ad intravvedere i contorni, quei particolari importanti se non essenziali della narrazione, segni che fanno la differenza.
Oltre al cosiddetto “sbaglio della natura” si comincia ad intravvedere anche il limite di una società escludente ed esclusiva, si comincia ad intravvedere, mi sia concessa la licenza politica, anche lo “ sbaglio della cultura”.
Ritengo giusto citare Casa Susanna, un prezioso album di famiglia pubblicato in America nel 2005 da M. Hurst and R. Swope. Il libro fu regalato al Centro Documentazione MIT da Lina Pallotta una bravissima fotoreporter particolarmente attenta al sociale che nelle sue lezioni di fotografia citava questo lavoro come esempio di documentazione dal basso. Il libro infatti raccoglie la foto, molte delle quali sono autoscatti, di travestiti e transessuali che tra gli anni quaranta e cinquanta avevano creato una specie di Comune chiamata appunto Casa Susanna nella campagna a nord di New York, dove si riunivano per passare insieme feste e vacanze. Il pacchetto di foto finito in un mercatino dell’usato fu trovato accidentalmente dall’autore che ne fece una pubblicazione in cui possiamo ritrovare pezzi di vita trans di cui non si sapeva nulla prima d’ora.
E’ il magnifico reportage di Lisetta Carmi sui travestiti di Genova a offrire uno sguardo nuovo e una diversa costruzione di senso. La fotografa entra nella realtà separata dei carrugi del centro storico, nei bassi, e da quella realtà osserva. Non si ferma a ritrarre i personaggi, ma ci riporta il mondo visto da loro, lo sguardo del fotografo esce dalla verticalità ed entra nell’orizzonte degli eventi, la nuda vita delle favolose comincia ad essere impressa sulla carta per essere documentata e diremmo noi oggi, per darci la possibilità di una ricostruzione storica “nostra” che non sia quella della medicina, della psichiatria, della criminologia. Erano i primi anni Sessanta, i favolosi anni Sessanta, quando la dolce brezza del cambiamento che attraversava il mondo faceva uscire alla luce del sole la nuda vita, le storie di tante e tanti per secoli rimasti silenti. Era l’inizio del riscatto!
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Che ci piaccia o no, siamo tutti immersi in una fitta rete di relazioni che ci permea, ci influenza, ci da forma. In questa rete lo sguardo degli altri è importante a volte fondamentale, uno sguardo filtrato dalla cultura, specie quella dominante, che crea l’immagine compresa la nostra, dandole significato. Una immagine che, guardandoci allo specchio, ci può corrispondere o essere estranea.
Il rapporto con la propria immagine, la sintonia con essa, può essere considerato a tutti gli effetti l’elemento centrale dell’esperienza transessuale – misura, prova, sguardo, percezione di sé e di tutto il mondo intorno. Quanto quel corpo che vedo riflesso nello specchio mi corrisponde, quanto mi appaga, quanto di quel corpo che guardo allo specchio sento mio!? La persona transessuale scopre se stessa nell’atto di guardarsi, non solo allo specchio ma anche in una foto, in un video, la differenza tra i due momenti è nella immediatezza o meno dell’immagine riflessa. Se allo specchio quello che vedo è me stesso in quel preciso istante, il mio corpo presente e reale, in una foto lo rivedo invece fissato in un momento, in un luogo, in uno stato d’animo precisi. Se allo specchio lo sguardo è il mio, nella foto è quello di altri che possono essere culturalmente, politicamente, sessualmente diversi da me. La fotografia riporta la visione storica, sociale, culturale del transessualismo, in essa è racchiuso un tratto del percorso o, sarebbe meglio dire, del transito.
Una foto narra, descrive, riporta i particolari, propone letture altre, diverse… nuove! Può chiarire alcuni passaggi e può anche confonderli, può far emergere alcuni tratti e può anche nasconderli, la differenza è tutta nell’occhio di chi ritrae, nel suo obiettivo inteso non in senso tecnico quanto piuttosto in senso culturale. E’ il desiderio, la motivazione, il cuore di chi fotografa a dar forma a un’esperienza, la vera sfida del buon fotografo!
Una transessuale truccatissima in tacchi a spillo, minigonna, fotografata sul marciapiede di notte mentre si prostituisce trasmette un’immagine precisa, un tratto dell’esperienza, ma ecco che tutte le transessuali diventano prostitute. Una persona transessuale, uomo o donna, ritratto/a nudo/a, mette in risalto i segni evidenti della sua transizione perché è proprio sul corpo che porta scritta la sua esperienza, potrebbe diventare, secondo codici interpretativi particolari, un mostro o una dea, difficilmente una persona normale. Una transessuale fotografata durante un fermo di polizia o in una retata resta chiusa in quella scena, segregata ai margini della società. La foto di un femminiello ripreso nei vicoli del centro storico di Napoli, o una Hijira per le strade di Bombay trasmettono il crepuscolo di una cultura in via di estinzione, falsificando o banalizzando processi culturali molto complessi.
Esempi ce ne sarebbero tanti, la storia della fotografia dalla sua nascita a oggi ne è costellata, mi sono limitata a riportarne quelli più frequenti che hanno contribuito alla formazione di stereotipi e luoghi comuni che hanno influito non poco sul percorso trans.
La foto crea un immaginario, alimenta la fantasia, i sogni dando forma all’universo, ed ecco che una transessuale direziona tutto il suo transito verso il poster della diva che ha attaccato in camera, costruisce se stessa su quel mito.
Quante Marilin, quante Greta, quante Sofia, Mina, Patty ho incontrato nel mio tragitto, quante vite passate ad assomigliare a quella foto che campeggiava sul proprio altare. Claudia, una delle storie da me raccolte in Tra le rose e le viole (Manifestolibri, 2002) dice… “Mi affascinavano Rita Haiwort e Milva, queste donne fatali che stranamente avevano tutte i capelli rossi! Come li ho io adesso! Ho scoperto solo da grande che ci sono alcune donne famose che per motivi inspiegabili, hanno affascinato tutte noi trans da piccole: Patty Pravo, Mina, Moira. Anche se io preferisco la Milvona. E’ strano! E’ come se queste lanciassero dei messaggi che solo gay e trans raccolgono”
La fotografia nasce e si sviluppa con la cultura moderna, di essa ne è la narrazione, trasmette, comunica, attraverso i media entra immediatamente e contemporaneamente nel quotidiano di milioni di persone sparse in ogni angolo del pianeta e, in questo senso, uno scatto può fare la differenza!
Come per l’immagine allo specchio che non sempre corrisponde così anche la foto o meglio la narrazione fotografica può non rispecchiarci. Una dissonanza acuita e problematizzata da una cultura che non riconosce le differenze, una dissonanza che affonda le sue radici non solamente, come si crede, nel dramma interiore dell’individuo ma anche e soprattutto nei limiti di una società chiusa, poco includente e per nulla accogliente. La questione potrebbe essere posta su un altro livello spostando l’attenzione dalla persona presa individualmente al contesto in cui essa vive, proponendo un passaggio dal piano psicologico a uno più sociale o culturale.
Non credo che il problema del transessualismo risieda tutto nel famoso DIG (Disordine dell’Identità di Genere) come ci propone un approccio medico-scientifico, non credo cioè che la questione sia riconducibile tutta a un “disordine” della persona quanto piuttosto a un “ordine” della società. Il dramma interiore dell’individuo è tanto più grande quanto più forte è lo stigma che la società gli cuce addosso. Credo che sfida compito e responsabilità della fotografia sia di far emergere il rapporto tra persona e società, allargare cioè il grandangolo dal disordine psicologico all’ordine sociale.
Porpora Marcasciano